Visita didattica per le scuole. Casino Nobile di Villa Torlonia - Approfondimenti: La terza generazione della famiglia Torlonia

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01/01 - 09/06/2012
Musei di Villa Torlonia,

Casino Nobile

Visita didattica per le scuole.

Casino Nobile: La terza generazione della famiglia Torlonia

Come abbiamo appena detto, Alessandro Torlonia aveva preso nelle sue mani le redini dell’impresa di famiglia nel 1824, quando il padre si era ammalato: sarà stato per il tratto più signorile e per i modi meno rozzi, ma dimostrò subito di possedere in grado ancor più spiccato le doti che erano state di Giovanni, innalzando il tono della sua sociabilità e superandolo, per esempio, in spirito d’iniziativa, creatività e grandezza di concezioni (solo lui avrebbe potuto progettare e poi realizzare il prosciugamento del lago del Fucino, portando a 1.700 lire l’ettaro il prezzo di terre che prima ne valevano 400)87. Anche le cifre sono dalla sua parte: da un documento conservato nel Fondo Torlonia risulta infatti che se con il padre il Banco totalizzò in 45 anni utili per 2.143.686 scudi, con Alessandro in 14 anni gli utili furono di poco inferiori ai 2 milioni (1.986.333 scudi per la precisione)88. Chiaramente rispetto al primo periodo del Banco le condizioni generali erano mutate comportando a livello della vita degli Stati la necessità di un maggior ricorso alla leva finanziaria per far fronte alle emergenze sociali e a livello dei privati una maggiore confidenza con le operazioni di banca, e Alessandro non aveva mancato di giovarsene; non va poi trascurato l’effetto positivo che sugli affari bancari dovette avere negli anni Trenta l’incremento del turismo a Roma. E tuttavia non credo che vada sottovalutata la particolare abilità di Alessandro nella conduzione degli affari e nell’apertura di contatti con i mercati esteri.
L’impulso iniziale fu quello di continuare, incrementando la propria visibilità pubblica con l’ausilio di palazzi sempre più prestigiosi, la tradizione inventata dal padre e da lui ripresa con un tratto di maggiore eleganza. Balli e feste divennero ancora più sfarzosi, al punto che Silvagni avrebbe dedicato un intero capitolo della sua opera a ricordarne l’eccezionalità89; e fu ampliata, con l’acquisizione e il restauro di alcuni palazzi, la scena offerta alla presenza degli stranieri, in funzione della quale fu ideata un’efficace sinergia tra clientela del banco e la possibilità di essere invitati, in pratica pagando90, agli eventi più mondani che potesse elargire la Roma degli anni Trenta. Finita la lunga stagione penitenziale imposta da Leone XII, in città riprese il flusso dei viaggiatori e si diffuse tra le teste coronate – regnanti o detronizzate – l’abitudine di soggiornare per periodi anche lunghi nella Capitale del mondo cattolico91 che, con tutto il suo fanatismo religioso (o presunto tale), esercitava un richiamo irresistibile sui protestanti, sia che fossero artisti (e questo li giustificava perché Roma era ancora considerata il tempio delle arti) sia che fossero semplici visitatori, curiosi di conoscere un mondo che, per gli inglesi soprattutto, rappresentava un pezzo di medioevo sopravvissuto nell’Europa; e questo li giustificava un po’ meno, soprattutto se pretendevano di posare sulla città lo sguardo dell’economista inglese Senior92 agli occhi del quale tutto ciò che in fatto di politica, religione e costume si discostava dal modello inglese era di per sé inferiore. In questo gli americani erano senz’altro più clementi e disposti a capire, e frequente risuonava in loro la nota dell’ammirazione, stimolata talvolta proprio dall’ambiente e dal clima che avevano trovato in casa Torlonia: valga per tutti l’esempio della poetessa Julia Ward Howe che confrontava la vivacità delle feste dei Torlonia con la noia mortale di serate trascorse altrove, e si sdebitava di ciò che le era stato elargito esaltando la bellezza e l’eleganza della moglie di Alessandro93.
Per acquistare e rimodernare il palazzo ex Giraud a piazza Scossacavalli (per il quale nel 1820 il padre aveva sborsato 8.200 scudi alla Reverenda Camera Apostolica)94 o il Palazzo Nuñez di via Bocca di Leone o la villa di Porta Pia (poi abbattuta dopo un attentato e sostituita dell’ambasciata britannica) o la villa sulla Nomentana recentemente riaperta al pubblico95, per rilanciare rendendoli più godibili i teatri Alibert, Tordinona (poi Apollo, comprato da Giovanni nel 1820 e da Alessandro affidato per la ricostruzione a Valadier) e Argentina, acquistato nel 1843 e completamente ristrutturato, per rifare infine un intero isolato di via Borgognona occorrevano molti soldi. I Torlonia, non solo Alessandro ma anche il fratello Marino, li trovarono accrescendo il volume di affari del Banco e impiegando metodi più moderni, e se vogliamo meno avventurosi e spregiudicati, di quelli del padre. Ciò che impose Alessandro come il maggiore banchiere privato di Roma fu la sua capacità di entrare nei meccanismi finanziari dello Stato, sfruttandone sapientemente la difficile congiuntura che, tra rivoluzioni, epidemie e carestie, esso si trovò ad attraversare tra il 1831 e il 1846 e che costrinse il governo papale a ricorrere a più riprese, e fino al 1838 in modo quasi sistematico, al prestito bancario. Con le sue transazioni il banchiere romano rischiò poco e guadagnò tantissimo, soprattutto rendendosi pressoché indipendente dal potere politico («e poteva esserlo – chiosa Ugo Pesci – perché il Governo pontificio doveva più spesso ricorrere a lui che egli al governo»)96; oltretutto, racconta Belli, a tutti i titoli di cui già si fregiava ne aggiunse un altro spontaneamente affibbiatogli dalla plebe, quello di «sarvatorello de Roma»97, che consacrava i suoi interventi a sollievo del deficit statale.
Daniela Felisini ha ricostruito questa vicenda nel suo volume del 1990 sulle Finanze pontificie98 e l’ha approfondita nella biografia di Alessandro Torlonia ancora fresca di stampa e da noi più volte citata. Io quindi farò riferimento alla sua accuratissima ricostruzione avvalendomi qua e là del sussidio di qualche altra fonte. La Felisini ha seguito le attività finanziarie di Alessandro soprattutto nell’ottica del rapporto non sempre sereno con i Rothschild, dimostrando come essi avessero in lui più un intermediario, un corrispondente da Roma capace di garantire la loro presenza su una piazza non priva di prospettive, che un socio d’affari; e in effetti il prestito trentennale allo Stato pontificio di tre milioni di scudi del 1831 e del 1832 fu erogato dalla casa parigina a condizioni onerosissime (secondo Spada, che definisce i due prestiti «i più rovinosi» ma non parla della commissione che intascò Torlonia, per cui di tre milioni al governo ne andarono poco più di 1.800.000)99, mentre a Torlonia andò la sola commissione (comunque molto alta); la stessa cosa avvenne nel 1837, con il prestito di 3 milioni di scudi contratto dallo Stato pontificio (ad un interesse del 7,5%)100 per rispondere all’emergenza del colera, laddove, per i 2 milioni di scudi prestati nel 1846 il banchiere romano, non volendo coinvolgere i Rothschild, dovette associarsi al genovese Parodi101. Se a tutto ciò si aggiungono gli incarichi di consulenza che per decisione dello stesso pontefice furono conferiti ad Alessandro nel quindicennio gregoriano (ad esempio la partecipazione alla cassa d’ammortizzazione del debito pubblico istituita nel 1831 su cui ci informa il principe Chigi)102 e la presenza tra i soci fondatori della Cassa di risparmio di Roma (1836: Torlonia fu anche uno dei primi soci ad avvalersi della possibilità di prendere dai fondi depositati un prestito di 10.000 scudi)103, nonché le numerose partecipazioni a società azionarie interessate ad investire in titoli esteri e in obbligazioni, si comprende anche come l’attività finanziaria dei Torlonia non solo fosse cresciuta ma si fosse anche, in un certo senso, “modernizzata”, approfittando in particolare dei nuovi e più sofisticati metodi speculativi messi a punto nei mercati esteri. Diversificare gli investimenti seguendo con attenzione i mercati esteri: questa fu negli anni Trenta-Quaranta la chiave del successo degli eredi di Giovanni in un’economia pur depressa come quella pontificia; seguire i Torlonia fu invece la risorsa degli speculatori i quali, ebbe a dire un contemporaneo, «quando vedono che Torlonia ha fatto un affare credono che sia buono per l’idea supposta che lui non l’avrebbe fatto se fosse stato cattivo»104.
L’altro grosso serbatoio di proventi sicuri per Alessandro e per Marino Torlonia fu la privativa dei sali e tabacchi che i due fratelli riuscirono ad aggiudicarsi per dodici anni a partire dal 1832105. Su questo contratto, come sull’altro che lo seguì alla sua scadenza confermandolo per altri dodici anni, Stendhal, allora console a Civitavecchia, ebbe a rivelare particolari molto interessanti al suo ministro degli Esteri: su quello del 1832 disse, ad esempio, che Alessandro aveva versato un acconto notevole alle finanze pontificie, «mais – soggiungeva – il arrangea son contrat de façon à gagner 42%»; secondo altri, soggiungeva, anche di più106. Stendhal insinuava pure che in una vertenza contro il tesoriere Tosti per certe sue costruzioni abusive Alessandro l’avesse avuta vinta con un sistema infallibile, e cioè corrompendo i giudici; i termini del contratto, segreti all’epoca in cui era stato concordato, Stendhal li chiarì poi nel 1841107; sul secondo, firmato nel 1841 dopo un’aspra lotta con un gruppo di finanzieri concorrenti ed esecutivo dal 1843 al 1855, Stendhal osservava che la convenienza per i Torlonia era stata di gran lunga minore, visti i 280.000 scudi annui da versare alle casse pontificie e il beneficio del 34% da corrispondere sugli introiti (contro il 22,5% del primo contratto)108. Si capisce dunque come mai quello del sale e dei tabacchi diventasse, come ebbe a scrivere Gaetano Moroni, «uno dei primari fonti dell’erario pontificio»109. In compenso, almeno a giudicare dai risultati del primo dodicennio, la qualità del prodotto era assai migliorata110, ne era cresciuto lo smercio, e, soprattutto, nella gestione del settore erano stati introdotti «un ordre et une régolarité inconnus»111: ed erano, questi, riconoscimenti che, provenendo da un osservatore abituato all’efficienza della macchina pubblica francese, non possono non essere apprezzati.
Se questi erano i rami più ricchi dell’imprenditorialità dei Torlonia in campo finanziario, non ne mancavano altri, anche assai consistenti, nel settore immobiliare e in quello agrario. L’eccezionalità di questa famiglia e dei suoi componenti nel periodo in cui a guidarne le sorti fu principalmente Alessandro non sta soltanto nelle dimensioni raggiunte dal patrimonio posseduto o nel rilievo acquisito dalla loro presenza in un determinato campo di investimenti, ma nella somma delle loro iniziative e in alcune caratteristiche comportamentali che mai sono presenti contemporaneamente in nessun altro casato della nobiltà romana. Se anche non sarà stato, a differenza di quanto sostiene Raffaele De Cesare, il solo tra tanti nobili assenteisti a governare «a modo suo [...] una parte delle sue tenute»112, unico era però il suo stile di vita nella ricerca di soddisfazioni che erano sociali e insieme intellettuali. Così, nella residenza principale di piazza Venezia abbattuta sul finire dell’Ottocento profuse un lusso straordinario, arredandola, decorandola sala per sala e coprendone le pareti di quadri e i soffitti di affreschi commissionati agli artisti più rinomati presenti in Italia. C’era certamente della piaggeria nel racconto con cui Alessandro Cavallini nel 1878 portava al settimo cielo il contributo dato alle arti da colui che «con il suo eletto ingegno seppe non solo creare una storia a tutte le arti più nobili moderne, ma conservarci ben anco le prove dell’incivilimento e delle glorie degli antichi popoli, ricongiungendo i spazi quasi infiniti dell’arte, partiti da una millenaria barbarie»113; o nella testimonianza di Gaetano Moroni che nel suo Dizionario ricordava con una prosa non proprio sobria una delle imprese più popolari di Alessandro, l’erezione di due obelischi nella villa sulla Nomentana per ricordare entrambi i genitori:
Colonne disvelte dalle viscere de’ monti di Carrara, ed obelischi di granito rosso tagliati dalle cave di Baveno sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, solcarono le spumanti onde del mar Tirreno e dell’Adriatico, approdarono al trionfal Tevere per abbellimento de’ palazzi di città e della villa suburbana di sì illustre prosapia114.
Ma, al di là di ogni spettacolarizzazione del ruolo sociale, resta il fatto di un dinamismo imprenditoriale che non conosceva soste, in qualunque campo, non ultimo quello delle arti. Non credo si possa applicare ad Alessandro Torlonia il giudizio di chi ha avanzato l’ipotesi che nel momento in cui termina il fidecommesso si spegne anche il mecenatismo e si estingue «il tipo romano del signore»115.
Poche a Roma, tra le vecchie case patrizie, potevano mantenersi all’altezza di questo tenore di vita e dello stile che vi era connesso. Si ricordi come Madame de Staël all’inizio del secolo aveva descritto ai lettori di Corinne, ou l’Italie il costume abitativo della nobiltà romana rinserrata nei suoi grandi palazzi:
Queste vaste dimore dei principi romani sono deserte e silenziose; i pigri abitanti di questi superbi palazzi si ritirano in qualche piccola stanza appartata, e lasciano che gli stranieri percorrano le loro magnifiche gallerie dove i più bei quadri del secolo di Leone X sono raccolti. I grandi signori romani sono attualmente così estranei al lusso fastoso dei loro antenati, quanto quegli antenati erano estranei alle virtù austere dei romani della repubblica116.
E infatti Michelangelo Caetani, che di quella nobiltà era il rappresentante più illustre ed anche il più moralmente e intellettualmente autorevole, aveva dovuto dividere in appartamenti da affittare il palazzo di via delle Botteghe Oscure, e il suo esempio era stato seguito da altri nobili, altrettanto bisognosi di rimpinguare i loro averi con il danaro dei viaggiatori stranieri («À Rome chaque étranger devient un capital, dont le romain tire le plus gros intérêt possible»)117. Torlonia non ci pensava nemmeno lontanamente118, perché amava spendere e fare delle sue case un laboratorio permanente, con uno spirito mecenatizio che i critici hanno creduto di accostare «solo a quello di Ludovico di Baviera per la sua Monaco»119; sicché le sale del suo palazzo di piazza Venezia, una vera «reggia delle arti» secondo la definizione di Gaetano Moroni120, oltre a ospitare le tele e gli affreschi di Landi e Camuccini, di Podesti e Massabò, oltre ad accogliere le sculture di Canova assieme a quelle dei discepoli di Thorvaldsen (Tenerani, Bienaimé, C. Pistrucci ecc.), attestavano, grazie al concorso di Palagi e di Hayez, il profilarsi di quelle «prime intuizioni che negli anni successivi, trasmigrate a Milano, [...] avrebbero dato vita al romanticismo storico»121. Nessuna meraviglia, dunque, se nel 1841 l’architetto Francesco Gasparoni inserisce nelle sue Prose sopra argomenti di belle arti alcune pagine che intitola “A’ Torlonia le Arti riconoscenti” alle quali fa seguire una sua considerazione quasi obbligata:
Verrà però tempo, né forse è lontano il giorno, in cui si leverà degnamente qualcuno, il quale d’ogni cosa ragionando, farà vedere che niuno in Italia commise oggi agli artefici opere in maggior copia dell’Ecc.ma Casa Torlonia, e che a niuno, meglio che a lei, debbono le arti esser tenute122.
E quanti altri signori potevano vantare a Roma collaboratori della levatura di coloro che circondavano Alessandro? Quanti potevano annoverare in famiglia un poeta come Giovanni, il figlio di Marino, esponente della cosiddetta Scuola romana morto in giovane età lasciando una piccola raccolta di versi non indegni e dopo aver finanziato generosamente la pubblicazione delle poesie dei suoi sodali? Quanti potevano avere al loro fianco un cronista e uno storico? Il primo, destinato a restare anonimo ma certamente ben inserito nell’ambiente di casa Torlonia tanto da essere spesso in viaggio con qualcuno di essi, avrebbe lasciato manoscritti i 19 volumetti del Sommario storico annuale romano, ora conservati nell’archivio del Museo centrale del Risorgimento, racconto preciso e puntuale degli anni dal 1846 al 1869, a giudizio di A. M. Ghisalberti «una delle più compiute cronache che si abbiano dei tempi del pontificato di Pio IX, seria, sicura, piuttosto obiettiva»123. Lo storico, poi, Giuseppe Spada, era stato e sarà qualcosa di più del rievocatore della cosiddetta “rivoluzione romana”: già uomo di fiducia di Giovanni Torlonia che lo aveva assunto nel 1811124, aveva lavorato per anni nel Banco Torlonia salendo fino ad una qualifica di grande responsabilità, quella di procuratore; quando Alessandro deciderà di smettere, sarà a lui, assieme ad altri due “commessi”, Luigi Flamini e Tommaso Piggiani, che nel 1863 affiderà il Banco125. Come storico, dicevamo, Spada, che era fratello di Francesco, il grande amico di Belli, avrebbe lasciato una Storia della rivoluzione di Roma [...] dal 1 giugno 1846 al 15 luglio 1849, informatissima e precisa ricostruzione degli eventi del triennio ben nota agli studiosi che l’hanno considerata a lungo come una testimonianza di parte papalina, il che è senza dubbio vero, a patto però di non dimenticare l’onestà di fondo di un uomo che più che un conservatore era un nostalgico che aveva vissuto con spirito da novello Cacciaguida le trasformazioni umane e sociali che avevano connotato la vita di Roma negli ultimi trent’anni126. Sono, a mio parere, appunto queste presenze accessorie o è la comparsa in famiglia di un poeta a marcare il passaggio dalla fase della distinzione in base al denaro a quella in cui il nucleo familiare acquista un prestigio spiritualmente più elevato127: una presenza non marginale nel campo delle arti è il segno che la nobiltà raggiunta col denaro è anche in grado di smaterializzarsi perché sa andare oltre i suoi limiti naturali.
Tornando a Giuseppe Spada, non è escluso che un certo tono dimesso della sua Storia sia da collegare agli eventi che in quei tre fatidici anni segnarono per i Torlonia se non l’inizio di una crisi quanto meno un certo appannamento del loro fulgore. Va intanto tenuto conto che con il nuovo papa i rapporti non furono così stretti come lo erano stati con Gregorio XVI e con la sua finanza. Se, come mi sembra indubitabile, ciò avvenne, non fu a causa di una preconcetta ostilità di Alessandro verso il nuovo corso, tutt’altro. Del resto, per quanto mi risulta, la collaborazione con Gregorio XVI, ferma restando la religiosità di Alessandro e dato per certo il suo personale contributo alle opere di carità128, non aveva mai comportato un’adesione alla politica temporale della Chiesa, rispetto alla quale il principe, forte della sua inattaccabile posizione economica, si era mantenuto sempre indipendente. Volendo prendere sul serio il sonetto di Belli in cui al papa che gli domanda perché ha introdotto nelle sue tenute l’uso dei cammelli Alessandro risponde che quello è l’animale più adatto alle zone desertiche129, direi che con quei versi il poeta aveva voluto fissare l’immagine di un capitalista che, meritoriamente dedito all’agricoltura a differenza di molti altri nobili, non accettava lo stato di abbandono in cui era lasciata la campagna romana (o credeva fosse lasciata, se dobbiamo prestar fede a recenti ricerche130 che hanno ribaltato il presunto stereotipo dell’incultura proponendo un modello di notevoli trasformazioni agrarie, di cui evidentemente Alessandro, e Belli per lui, non dovevano essere venuti a conoscenza). Con Pio IX la questione dovette essere un’altra, legata probabilmente ai nuovi equilibri interni dell’amministrazione pontificia o ai rapporti di questa con il capitale straniero. Fatto sta che Alessandro, forse anche per una sua stanchezza, parve un po’ alla volta perdere l’ascendente esercitato fin allora sulla vita dello Stato e staccarsi gradualmente dalle sedi dove si prendevano le grandi decisioni.
In verità, all’avvento di Pio IX Alessandro e i fratelli avevano cercato di dare il proprio contributo ai primi successi mediatici e popolari di Pio IX131. Non si limitarono a organizzare feste popolari e fuochi d’artificio, che era in qualche modo la specialità della famiglia, ma andarono oltre, Marino facendosi vedere ad un banchetto patriottico assieme al noto cospiratore Sterbini e a Ciceruacchio, Carlo arruolandosi nella Guardia Civica in rappresentanza del rione Trevi e raccogliendo le iscrizioni altrui132, Alessandro concedendo un prestito di due milioni di scudi a sostegno del riformismo del nuovo papa133 e sponsorizzando altre grosse celebrazioni popolari a cominciare da quella per il perdono ai detenuti politici134. Secondo il fidatissimo Spada, la partecipazione alle manifestazioni di massa non ebbe carattere veramente spontaneo, e se molti nobili, compresi i Torlonia, vi si fecero trascinare, lo si dovette in gran parte alla «paura di passare per retrivo o per non favorevole agli amnistiati»135. Forse non fu molto saggio lasciarsi coinvolgere nell’entusiasmo collettivo o forse fu commesso qualche errore di troppo, se è vero che nessun Torlonia fu inserito nella Consulta di Stato né ebbe parte in qualcuna delle varie commissioni istituite per le riforme e il solo Marino alla fine del 1847 entrò nel primo consiglio comunale di Roma136, cosa che probabilmente lo consolò solo in minima parte del dispiacere procuratogli dall’aver dovuto restituire il ducato di Bracciano137 agli Odescalchi che lo avevano venduto al padre con la clausola dello jus redimendi. Intanto in quegli stessi giorni moriva Carlo, dei tre fratelli colui che aveva consumato la sua vita nell’amore del prossimo, al punto che perfino una giornalista americana in una sua corrispondenza da Roma ne volle sottolineare i meriti cristiani ricordando quanto spirito di carità egli avesse profuso «by giving all he had for the good of others»138; per finire, Alessandro, incluso nell’elenco dei componenti l’Alto Consiglio (che era la Camera alta dello Stato ecclesiastico nel periodo costituzionale), rifiutò di entrarne a far parte139.
Erano tutti segnali dell’inizio di una stagione meno fortunata delle precedenti. Il passaggio al nuovo pontificato si rivelò più difficile di quanto fosse dato prevedere, e probabilmente l’irrompere sulla scena politica e affaristica del cardinale Antonelli e della sua famiglia si tradusse in un’immediata contrazione dei rapporti d’affari del Banco Torlonia con il governo140. Da sempre avulso dalla lotta politica, Alessandro parve allora voler forzare gli sviluppi della situazione in senso liberale, un po’ come aveva fatto il padre nel 1798, e certo ci colpisce il discorso che, poco dopo la nomina a colonnello della Civica, egli rivolse al proprio battaglione, ricordando «ai militi raccolti – ci dice l’archivista Gabrielli – le parole di Mazzini ed il grande significato dei tre colori della offerta insegna, in quanto essi [sono le sue parole] dovevano essere di sprone al conseguimento dell’unità ed indipendenza italiana sotto il principato di Pio IX»141. Effetto di trascinamento emotivo? Può essere; e però, dopo la fuga del papa a Gaeta, Alessandro non solo a differenza di molti altri nobili scelse di restare a Roma, ma addirittura accettò di entrare come consigliere nella commissione municipale istituita dopo la proclamazione della Repubblica142; e se anche nel 1850 chiese ed ottenne di essere ricevuto da Pio IX che ancora si trovava a Terracina, in precedenza, iniziata l’epurazione, si era preoccupato di impedire che venissero colpiti alcuni suoi dipendenti che avevano aderito al regime repubblicano143. Poi tutto si ricompose e nel marzo del 1851, alla prima grande occasione mondana organizzata da Alessandro dopo il ritorno dell’ordine, fece un certo scalpore, e fu notata anche dal “Journal des Débats”, la presenza al ricevimento di alcuni ufficiali del corpo d’occupazione francese.
Nell’insieme si ha tuttavia l’impressione che fosse iniziata per Alessandro e la sua famiglia una fase discendente, quanto meno per ciò che riguarda il primato che da decenni essa esercitava nel panorama finanziario romano. Certo, non si può negare che, come ha dimostrato la Felisini, la presenza di Torlonia sui mercati esteri fosse ancora molto incisiva, ed è d’altronde di questi anni, a partire dal 1853, l’inizio del prosciugamento del Fucino, un impegno ciclopico protrattosi per più di vent’anni il cui esito più che positivo aprì alla coltivazione qualcosa come 16.000 ettari di terreno144 e impose all’economia regionale «una forte virata in senso industriale»145 ridando lustro e prestigio al casato. Ma intanto bisogna prendere atto, ad esempio, dell’assenza di Alessandro dai progetti di sviluppo ferroviario che a metà anni Cinquanta cominciavano ad interessare lo Stato pontificio, progetti che fuori dello Stato lo avevano invece attirato molto inducendolo in passato ad una forte partecipazione nella Compagnie des Chemins de fer du Nord di James Rothschild146. La malattia mentale della moglie, di cui si ha notizia a partire dall’aprile del 1856147, e quella quasi parallela della figlia148 possono spiegare in parte questa perdita d’interesse per gli investimenti e le operazioni finanziarie in area pontificia, ma le cause maggiori devono però stare altrove, probabilmente, come si diceva sopra, nel peso predominante assunto dopo il 1849 dalla famiglia Antonelli149. Non è senza significato che quando nel 1860 Pio ix chiese ad Alessandro un prestito per far fronte alle accresciute spese difensive dello Stato, questi «avrebbe risposto di rivolgersi ai principi romani e specialmente ad Antonelli che ha depositato due milioni alla banca inglese»150. La già ricordata cessione del Banco nel 1863 (Spada che lo rilevò lo liquidò definitivamente nel 1872)151 rappresenta dunque il momento finale del declino nel settore su cui i Torlonia avevano costruito le proprie fortune.
E tuttavia nel 1866 un ultimo grosso colpo arrivò a dimostrare che, malgrado si fosse via via sbarazzato dei teatri comprati dal padre o da lui stesso, in Alessandro non era venuto meno l’amore per le grandi residenze romane, e fu l’acquisto per 700.000 scudi di villa Albani sulla cui facciata egli si affrettò a tramandare ai posteri a lettere maiuscole di bronzo che alexander torlonia vir princeps in melius restituit152. Si respirava ora un’altra aria, l’aria ormai prossima del disfacimento del potere temporale, rispetto al quale la famiglia nel suo complesso parve voler mantenere un certo distacco. Nel gennaio del 1860, quando il papa fu privato delle province del Nord, Alessandro e Marino rifiutano di sottoscrivere l’indirizzo di solidarietà al papa preparato da alcuni rappresentanti della nobiltà nera; allo stesso modo l’anno dopo, pur aderendo sostanzialmente al nuovo regime, evitano di firmare l’atto di riconoscimento del nuovo Regno d’Italia indirizzato da 10.000 romani a Vittorio Emanuele II 153. Quando, nel 1870, le truppe italiane entrano in Roma, la capitolazione della città viene firmata proprio in una sala di villa Albani. In seguito, malgrado la generosità dimostrata da Alessandro Torlonia verso parrocchie e corporazioni religiose soppresse154, malgrado la presenza peraltro non entusiastica nelle liste cattoliche alle amministrative del 1872155 e nonostante una devozione personale resa più assidua dall’incedere della vecchiaia, non corse buon sangue tra lui e le istituzioni ecclesiastiche che non gli perdonavano i buoni rapporti con la casa regnante e gli scambi di cortesie con Giuseppe Garibaldi che era ricorso a lui per avere un sostegno ai suoi progetti di regolazione del corso del Tevere. Piuttosto che una scelta di campo, la sua era solo l’espressione di una signorilità innata e di un amor di patria che, morendo, avrebbe raccomandato ai nipoti «di non confondere mai con quell’eccesso di liberalismo che il più delle volte degenera in licenza e in libertinaggio»156. Dall’altra parte del Tevere non lo vollero intendere e, quando nel febbraio del 1875 apparve sulla “Gazzetta del Regno” il testo del decreto reale che gli concedeva la medaglia d’oro per i lavori del Fucino, i giornali cattolici, credendo di potere additare in lui un traditore, lo attaccarono rinfacciandogli, non si sa con quale logica, il debito di gratitudine che le sue ricchezze dovevano al papato: per quello che potevano capire i suoi untuosi accusatori, la dignitosa replica di Alessandro fu anche una lezione di carità cristiana e di fede nella libertà157.
Sul suo stile di vita c’era poco da dire, modesto e sobrio com’era, prima nella dedizione alla moglie malata (morì nel 1875), poi nella semplicità di una giornata che tornava sempre uguale, sempre dedita al lavoro, capace com’era «a 80 anni, di alzarsi all’alba per andare a visitare qualcuna delle vaste sue tenute»158. Bene o male, poco prima che la moglie morisse aveva risolto il problema della successione e della continuità del nome dando la figlia Anna Maria in moglie a Giulio Borghese a patto che questi assumesse il cognome Torlonia (cui era legato anche il titolo principesco)159: per essere più convincente nella sua proposta dovette compiere un atto di rinunzia a quasi tutti i titoli nobiliari a favore del genero, e questo gli costò parecchio perché gli attirò addosso «l’opposizione fatta dagli altri rami della famiglia»160. Ma almeno morì tranquillo: era l’8 febbraio 1886, e per un giorno lo tennero nella stanzetta di palazzo Torlonia in cui era spirato; poi gli misero il saio dell’ordine francescano di cui era terziario e lo esposero nella galleria che ospitava le più amate tra le sue opere d’arte; infine lo trasportarono a Castel Gandolfo per l’inumazione161. Per la famiglia Torlonia l’Ottocento in un certo senso finì con lui: con ciò che avvenne negli ultimi anni del secolo, con la cessione allo Stato della galleria Torlonia e la demolizione del palazzo di piazza Venezia, fu come se i pezzi migliori di quel patrimonio immobiliare che era stato tanta parte della sua vita lo seguissero nella tomba.

Informazioni

Place Musei di Villa Torlonia
Opening hours

da gennaio a giugno 2012

Information

Info e prenotazioni: 060608 tutti i giorni ore 9.00-21.00

Closed
Lun
Type
Guided tour
Organization

Zètema progetto cultura

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